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Il bambino e l’acqua sporca

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L’ultima iniziativa editoriale di Repubblica, che con Reporter, una nuova sezione del giornale aperta al citizen journalism, prova a cimentarsi nel “primo esperimento italiano di crowdsourcing”, sta suscitando vivaci polemiche, in Rete e non solo, che hanno già coinvolto il CDR, l’Associazione Stampa Romana e la FNSI, tutti molto critici con la filosofia che sembra sovraintendere all’iniziativa, in quanto potrebbe mascherare nuove forme di sfruttamento del lavoro giornalistico. Chi la difende, invece - pochi, a dire il vero, se non altro per come è stata lanciata, senza una adeguata riflessione  - obietta un po’ stizzito che mettere steccati di questo tipo sa di “ottocentesco” e rivela una mentalità da “conservatori”, che hanno solo paura del nuovo. Siccome a me non piacciono i processi alle intenzioni, nè tanto meno le battaglie ideologiche, provo a mettere in fila qualche nota e qualche link utile per contribuire alla discussione, convinto da un lato che arroccarsi nella difesa di un fortino ormai vuoto – in questo caso, il giornalismo d’antan – sia una scelta che non paga mai; e certo dall’altro che consegnarsi passivamente al “nuovo che avanza” senza cercare di governarlo sia altrettanto miope.

1) Che lo si voglia o meno, il citizen journalism e l’utilizzo di user generated content sono ormai parte integrante del panorama informativo, di cui il giornalista  professionista e i media tradizionali non sono più l’unico perno, come una volta. Questo è lapalissiano da diversi anni per quanto riguarda le breaking news, ma l’impressione è che il fenomeno tenda ormai ad investire l’intero comparto delle notizie, che si strutturano sempre di più come un flusso immediato, continuo e interattivo. Si tratta di una rivoluzione cui non si può non plaudere – perchè permette una migliore copertura informativa, a tutto vantaggio dell’opinione pubblica  - ma che trasforma in profondità le modalità di reperimento, trattamento, diffusione e consumo delle notizie. Il cittadino che segnala problemi, fa foto oppure produce video sarà negli anni a venire una realtà imprescindibile e al tempo stesso un’arricchimento prezioso, con cui i giornalisti professionisti dovranno fare i conti, mettendosi in discussione e ritagliandosi un nuovo ruolo.  Per avere maggiori approfondimenti su questo trend si veda questo un mio articolo sulla rivista EAST e, soprattutto, l’ottimo paper scritto da Nicola Bruno per il Reuters Institute for the Study of Journalism.

2)  Le trasformazioni in corso non sono di per sè una minaccia al giornalismo professionale e aprono semmai nuove opportunità. Servono infatti giornalisti per individuare, selezionare, trattare e filtare la molteplicità di fonti a cui si ha accesso nell’era dei social network e del real time. La professione cambia, insomma, e si arricchisce di nuove figure; ma non mi pare affatto a rischio. Mettere perciò in competizione il citizen journalism con il giornalismo professionale mi pare una sciocchezza, così come lo è l’appellarsi al vecchio e abusato “esercizio abusivo della professione” per difendere l’Albo dall’assalto dei citizen journalist. Due casi recenti hanno riproposto la questione, come segnalato da Mario Tedeschini Lalli. Posso capire al riguardo le paure dei tanti giornalisti precari – a cui il dumping dei citizen journalist procura oggettivamente qualche danno – ma la battaglia va fatta contro gli editori e non contro i citizen, a cui nessuno potrà mai togliere la libertà d’espressione, come sancito dall’art.21 della nostra Costituzione. 

3) I problemi però ci sono, inutile negarselo, e spesso non è la crisi economica ma la miopia degli editori – che badano solo al profitto immediato e non guardano al di là del loro naso – a crearli. Lo dimostra l’esempio della CNN, una delle prime fra le grandi testate internazionali ad aprirsi al citizen journalism. La CNN ha lanciato fin dal 2006 una sezione, IReport, per reperire e trattare contributi user generated da utilizzare nelle breakings news. E nei primi due anni, fra video e foto, IReport ha processato 100mila contributi, di cui il 10% è andato in onda. Dal 2008 IReport si è trasformata in una community on line, che vanta al momento 800mila iscritti: solo sull’Onda Verde iraniana, nel 2009, ha ricevuto 5200 contributi, di cui 180 sono stati approvati e mandati in onda. Il successo dell’iniziativa ha spinto qualque mese fa l’editore – come riferisce LSDI – a licenziare in tronco 50 giornalisti, “non per un taglio dei costi ma per riorientare le risorse”, in direzione del citizen journalism. In molti l’hanno giudicata una pessima scelta e non tanto per la difesa corporativa del posto di lavoro quanto per il fatto che affidare ai cittadini la parte principale della propria produzione audio-video è stata giudicata una scelta “di corto respiro“. Diverso è invece l’approccio tentato dalla BBC e dal The Guardian, con un intreccio più articolato – come ci spiega Nicola Bruno nel paper già citato – fra giornalismo tradizionale e citizen journalism.  

4) In Italia i media tradizionali sembrano, per ora, privilegiare  un atteggiamento meno definito e sostanzialmente più opportunistico. Hanno accettato cioè l’utilizzo di contenuti user generated – vedi Corriere.it oppure il TG1 – ma solo  come “riempitivo”: costretti dalla crisi economica che attanaglia il mondo dell’editoria, puntano infatti più a ridurre i costi che a migliorare l’offerta, con una miopia che ritarda l’innovazione – indispensabile, nell’era del real time –  e che finisce per trasformare la crisi della nostra editoria in una lenta agonia. Ben vengano perciò gli esperimenti di Repubblica. Purchè non siano pasticciati e prefigurino scenari nuovi, in cui il giornalismo professionale abbia un ruolo importante, com’è giusto che sia. Vigilare è in ogni caso sacrosanto. Tant’è che le critiche esplose nei giorni scorsi hanno costretto l’editore a riaggiustare il tiro.

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